La grande fiammata inflazionistica del 2022 sta perdendo di intensità, anche grazie alla determinazione della BCE nello spegnere ogni aspettativa di inflazione.
Molti commentatori e politici, davvero poco credibili in materia di politica monetaria, da tempo sostengono apertamente che la BCE ci sta trascinando in una recessione inutile, perché la natura di questo fenomeno inflattivo non si può affrontare con la restrizione monetaria. Beninteso questa è l’opinione anche di alcuni (non certo tutti gli) economisti, soprattutto di sinistra, ma colpisce che il governo italiano e molti politici abbiano sposato con convinzione questa tesi, addossando alla BCE le colpe della possibile recessione ventura. Con il rialzo di settembre in effetti la BCE entra in un territorio in cui ulteriori rialzi diventano discutibili, anche perché la Germania è di fatto già in recessione e tutti i segnali indicano che noi ci entreremo a breve. Più in ombra rimangono le conseguenze dell’inflazione per il nostro paese e le ragioni per cui la BCE ritiene si debba continuare ad aumentare i tassi, ovvero perché l’inflazione scende così lentamente. Una inflazione temporanea ha anche alcuni effetti positivi. Lo stock di debito si svaluta perché con titoli emessi a tasso fisso (e basso), implicitamente stiamo restituendo meno del valore a cui i titoli sono state emessi. Contemporaneamente tutte le poste di bilancio a valore nominale (ad esempio i salari pubblici, che costituiscono una parte importante del bilancio) si svalutano anch’esse. Il gettito di molte imposte invece, ceteris paribus, cresce più proporzionalmente al tasso di inflazione (semplifico, ma insomma è più reattivo). Complessivamente per una quantità di ragioni gli effetti sul debito sono positivi. Questa è una delle ragioni che aiuta a spiegare come mai, nonostante un debito enorme, l’aumento dei tassi di interesse, e la fine del l’acquisto di titoli pubblici della BCE, per il momento, lo spread rimane su livelli bassissimi. Ovviamente ha contribuito una politica di bilancio non completamente dissennata che Giorgetti e Meloni hanno deciso, resistendo alle richieste di varie parti della maggioranza (e dell’opposizione).Un effetto importantissimo ma poco discusso è quello sui salari reali. L’Italia è di gran lunga il grande paese in cui i salari hanno perso più potere d’acquisto, circa il 7%, in termini reali. In realtà questo 7% nasconde situazioni molto differenziate, moltissime categorie hanno perso potere d’acquisto in misura maggiore al 10%. Questo fatto ha anch’esso un risvolto positivo. L’Italia implicitamente guadagna competitività sui mercati, perché cala il costo reale del lavoro, e questo potrebbe avere degli effetti soprattutto nel settore industriale. Il bilancio pubblico beneficia dei salari (implicitamente) più bassi dei dipendenti pubblici.
Dobbiamo però sapere che questi benefici, come quasi tutto in economia, non discendono dall’iperuranio e hanno dei pesanti risvolti negativi: c’è qualcuno che paga l’aggiustamento che si scaricherà sulla spesa. In questo caso sono i lavoratori dipendenti il cui reddito reale è stato eroso drammaticamente ed equivale esattamente ad un taglio di stipendio. Va detto che è stato prudente in una prima fase da parte dei sindacati non avviare un conflitto sul recupero di potere d’acquisto, quando questo poteva alimentare una spirale prezzi-salari.In altri momenti difficili è stato chiesto ai lavoratori dipendenti di far fronte alla congiuntura negativa responsabilmente, e sicuramente il paese, e gli stessi lavoratori, ne hanno beneficiato in passato. Ma a mio parere mai prima d’ora si era visto che queste perdite si confrontassero con guadagni così ingenti in altri settori della società. L’Italia, infatti, nonostante la massima moderazione salariale, è uno dei paesi in cui l’inflazione scende più lentamente.
A luglio Eurostat registrava un 6,4% su base annuale, contro una media dell’area euro di 5,5. Ci sono diverse cause. Che lo shock energetico russo abbia un effetto più potente sull’Italia non è una anomalia, data la nostra dipendenza. Due studiosi della Società Italiana Economisti, Travaglini e Bellocchi, hanno poi puntato il dito su alcune politiche di compensazione del carovita. Mentre l’Italia ha speso moltissime risorse in trasferimenti per compensare il carovita, alimentando forse una domanda irragionevole, altri paesi hanno speso meno. Questo potrebbe essere l’ennesimo canale attraverso cui la nostra ossessione per i trasferimenti con assegni, la vera grande passione degli italiani, ci condurrà alla rovina. Ci sono però anche delle inevitabili considerazioni su chi recupera l’inflazione. I prezzi sembrano aumentare in molti settori, anche competitivi. I casi che suscitano più scalpore però sono quelli nei quali si usa una risorsa comune in regime di esclusiva. Ci sono settori dove concessionari pubblici hanno potuto aumentare i prezzi con incrementi a doppia cifra anche prima dell’esplosione dell’inflazione.
È ragionevole che ad esempio il Ministro delle Infrastrutture devolva le sue energie migliori per difendere in Europa, contro la logica della cura e valorizzazione pubblica dei beni comuni, una piccola lobby che si sta arricchendo, mentre una intera società si impoverisce? E come giustifichiamo le infinite proroghe alla gratuità dell’uso irragionevole degli spazi pubblici nelle nostre città, quando l’emergenza è chiaramente finita? O il ritardo nell’imporre tasse di soggiorno (che speriamo vengano utilizzate per il decoro urbano e non per l’ennesimo festival del nulla), quando il carico che i turisti impongono alle nostre città è già esplosivo?
Assumersi delle responsabilità, per il lavoro dipendente, ha senso se quel sacrificio ha un esito. Nel nostro caso l’esito deve essere la discesa veloce dei prezzi e il fatto che la moderazione salariale si risolva in una maggiore attività economica, più occupazione, più gettito fiscale. Stiamo invece assistendo al trionfo di una logica predatoria, spesso in esenzione di imposta (di fatto), che non a caso sta anche generando un calo della domanda. Il paradosso è che il fattore produttivo fondamentale per molti di questi servizi è il lavoro che, come abbiamo visto, in termini reali costa sempre meno. Le ragioni per cui in presenza di una forte domanda, l’offerta da parte delle imprese non aumenta proporzionalmente, nonostante una forte riserva di lavoratori e risparmi privati consistenti, determinando aumenti di prezzo maggiori che in altri paesi, sono molteplici.
È difficile però evitare la sensazione che la propensione ad investire nel nostro paese (soprattutto da parte degli italiani) sia fortemente scoraggiata dalle dimensioni del nostro debito pubblico e dalla scarsa credibilità delle strategie di rientro. In ogni caso in assenza del dividendo sociale, rimane solo una gigantesca redistribuzione tra categorie e non certo verso i meno abbienti. L’ultimo esito è che, a fronte del calo di potere d’acquisto, i salariati, quando potranno, smetteranno di spendere o cercheranno alternative estere, e già lo stiamo vedendo nel turismo. E questa sarà la vera causa della recessione, non solo le politiche della BCE. Non credo che fosse questo il programma di nessun partito.
Il rialzo dei tassi può penalizzare il private equity e il venture capital, cioè i fondi che investono nelle imprese in cambio di azioni, ma la frenata è stata davvero violenta. Si tratta di un crollo inatteso, almeno nelle sue dimensioni. Nel primo semestre dell’anno gli investimenti del settore sono infatti scivolati del 71% rispetto allo stesso periodo del 2022, a un totale comunque sempre importante di 3,2 miliardi. «Le banche centrali pensano di contenere l’inflazione con una recessione guidata dell’economia, che si tramuta però anche in affanno per il nostro settore. Questo è pericoloso per il Paese» ed è un processo che «bisogna trovare il modo di fermare», dice Innocenzo Cipolletta, presidente dell’associazione del comparto Aifi che, in collaborazione con PwC Italia, ha presentato i dati delle attività del settore tra gennaio e giugno.
«Il primo semestre mostra una raccolta complessiva in crescita, ma grazie solo alla presenza di alcune iniziative istituzionali nel venture capital, altrimenti avremmo avuto un calo nella disponibilità di fondi per investimenti», aggiunge Cipolletta. «È importante che i fondi previsti per il venture capital e per la ristrutturazione non siano deviati verso il costituendo fondo per il Made in Italy. Quest’ultimo dovrebbe invece essere dotato di nuove risorse finanziare per non deprimere un mercato che si presenta debole, come mostrano i dati», spiega il presidente dell’Aifi. Nel dettaglio, la prima metà dell’anno ha registrato per il settore una raccolta complessiva (sul mercato e captive, cioè proveniente dalla casa madre) pari a 1.977 milioni, in crescita del 16% rispetto al primo semestre del 2022.
Il venture capital ha registrato il maggior numero di “deal”: 232. Segue il buyout con 75 operazioni, che è primo per valore a 2,2 miliardi, con il venture capital a 400 milioni. I disinvestimenti sono a quota un miliardo, in calo del 33%. Le uscite sono state 54 (+10%). Gli operatori che hanno effettuato un closing sono stati 20 contro i 26 dello stesso periodo dell’anno precedente. «L’evoluzione del mercato del debito nel primo semestre ha sicuramente frenato i large e mega deal: gli operatori si sono concentrati su transazioni di taglio più piccolo e in particolare su operazioni di “add-on” per aumentare la massa critica delle società in portafoglio», conclude Francesco Giordano, Private equity leader di PwC Italia.